Secondo dati diffusi dall’American Cancer Society, ben il 30% dei tumori diagnosticati alla prostata presentano un basso rischio di progressione.
In questi casi è possibile un approccio sanitario alternativo a cure o interventi invasivi: si parla in questi casi infatti di sorveglianza attiva.
Essa consiste in regolari controlli ematici, biopsie e visite urologiche.
Lo scopo è quello di limitare il massimo l’utilizzo di terapie farmacologiche con i relativi effetti collaterali ma nello stesso tempo assicurare un monitoraggio costante che possa attivare tempestivamente un terapia più aggressiva nel caso in cui i tumori, con il passare del tempo, si rivelino più aggressivi rispetto alla fase iniziale della diagnosi.
Questo approccio è in grado anche di rassicurare gli uomini con tumore della prostata sul fatto che, in presenza di un tumore a basso rischio, la sorveglia attiva rappresenta una strategia di gestione sicura ed efficace.
Per corroborare questa tesi, uno studio condotto dal Fred Hutch Cancer Center di Seattle ha seguito 2.155 pazienti con tumore della prostata a basso livello di progressione in fase iniziale, ai quali è stata indicata la sorveglianza attiva.
A distanza di 12 anni, i ricercatori hanno rilevato che la metà degli uomini non ha dovuto effettuare alcun trattamento chemioterapico, meno del 2% di loro ha sviluppato metastasi e i decessi hanno riguardato meno dell’1% dei reclutati.
I ricercatori indicano infine che il periodo di sorveglianza non dove durare meno di 15 anni, e si sta lavorando per estenderlo fino a 25.